dorsale

Ripensare gli Appennini. La spinta alla transizione per una montagna da vivere

L’analisi di Legambiente è una scommessa aperta ai contesti di montagna, in particolare gli Appennini. Le terre alte della dorsale appenninica esprimono un elevato potenziale, a patto di adottare correttivi strategici e politiche agite dal basso, con i dovuti raccordi tra pubblico e privato e una solida risposta istituzionale.

Un laboratorio lungo 1300 km

Da pilastro del Next Generation EU a parola-chiave delle politiche sull’Ambiente – tanto da mutare il nome, nel caso italiano, al suo Ministero –, la transizione ecologica è l’imperativo che guida la nuova strategia per la sostenibilità. In Appennino, è maturato il senso di una concertazione multilivello che parta dai territori coinvolti, a fronte della crescente instabilità climatica e di vecchie e nuove “emergenze” – contesto post-sisma e relativa gestione, dissesto idrogeologico, crisi demografica ed economica, disoccupazione, carenze nei servizi essenziali… A rilanciare la sfida è l’ultimo report di Legambiente, presentato il 10 dicembre a Pescasseroli (AQ) presso la sede del PN d’Abruzzo, Lazio e Molise in occasione del Forum degli Appennini, quest’anno alla sua V edizione.

Al centro dell’Agenda per la transizione ecologica e climatica” è un’area che rappresenta un unicum nel panorama orografico europeo: emblema della montagna antropizzata malgrado lo spopolamento, lungo i suoi 1300 km di dorsale esiste una contiguità fra territori, fra geologia e storia, capace di collegare culture, politiche e relazioni. L’Appennino diventa, così, patrimonio e paradigma della nostra contemporaneità.  

L’appello dell’’Associazione non dà adito a dubbi: perché si trasformi – come già sta accadendo – in un laboratorio di conoscenze, esperienze e buone pratiche, che sia valido esempio in un futuro denso di criticità, è necessario che lo spazio appenninico riceva un “riconoscimento autonomo nelle reti europee di cooperazione territoriale e all’interno della strategia europea per le montagne”. È, questa, una tra le dieci proposte formulate dall’Associazione.

L'Agenda

Un’ occasione da cogliere: così è definita nel report in esame la destinazione di fondi straordinaria decisa dal PNRR per l’Italia. Contro la crisi climatica e la perdita di biodiversità, l’UE ha stanziato risorse per 140 milioni di euro destinate alle Green Communities (GC), con tre aree-pilota già finanziate (2 milioni ciascuna: si tratta di progetti ormai avviati, uno nelle valli del Monviso e due in Appennino – la “Montagna del Latte” in Emilia Romagna e il “Parco regionale Sirente Velino” in Abruzzo) e 35 nuove proposte accolte tramite bando (per 135 milioni). 

La transizione ambientale e quella sociale sono legate a doppio filo. Le strategie europee vanno coordinate: in particolare, quella sull’economia circolare al 2030 e quella per la Biodiversità, che – si legge – “avrà maggiore impatto nel contesto appenninico”, a condizione di ricomprendervi tutte le aree che ancora necessitano di una tutela riconosciuta (a p. 19 del report, l’elenco delle aree protette da istituire). Si tratta di territori con un potenziale elevato, ma fragili, dove “manca spesso la capacità di gestire progetti complessi e integrati, come dimostra la scarsa propensione registrata in questi anni ad utilizzare le risorse Europee”.

Un sfida non priva di rischi, che vede, tra gli antidoti allo spopolamento avanzati da Legambiente, la riduzione del divario territoriale nell’allocazione di servizi essenziali. Ripristinando la rete territoriale di servizi per le comunità e le persone (in particolare: sanità, istruzione, trasporti) oggi concentrati nelle città, si genera un riequilibrio che ne garantisce l’accesso nel rispetto dei livelli minimi di assistenza. 

Il coinvolgimento delle comunità

 Ma non basta: occorre il coinvolgimento attivo delle comunità, nel convinto rifiuto del concetto di ‘marginalità’ che continua a riprodursi dall’esterno sui contesti di vita osservati. Per questo, un “modello energetico basato sull’autoproduzione di energie rinnovabili”, l’attenzione alle “filiere territoriali”, al “riuso dei materiali”, a una “gestione forestale sostenibile” con filiere boschive certificate, alla “produzione biologica” (agricola e zootecnica) e al “miglioramento dell’impronta climatica dei prodotti e servizi offerti” sono obiettivi possibili a patto di “invertire le dinamiche di sviluppo” in chiave non-assistenzialistica. 

Come? Riconoscendo alle comunità dell’Appennino “l’impegno a mantenere gli ecosistemi efficienti e salubri, e capaci di erogare servizi ecosistemici a favore delle aree urbane e dell’intero Paese”.

Un riconoscimento fondamentale, che dà prova di riuscita nelle buone pratiche attuate dalle Green Communities. Pensiamo alla “Montagna del latte” nel reggiano, che vede la diffusione di un’agronomia innovativa al servizio del mantenimento della biodiversità e della conservazione del suolo, riconoscendo ad agricoltori e allevatori un ruolo indiscusso di attori della transizione. O, ancora, all’esperienza del Parco del Partenio, che coinvolge 22 Comuni campani in attività di riciclo virtuoso dei rifiuti e nella realizzazione di ‘compostiere di comunità’: realizzata a basso costo da potature arboree, oltre a recuperare una frazione del ciclo dei rifiuti, la compostiera fornisce materiale ammendante per il miglioramento dei terreni e degli ecosistemi agricoli, evitando l’impatto ambientale dei consueti sistemi di smaltimento.   

Complessità: il ‘valore aggiunto’ per una rinascita già in atto

Lungo la Dorsale incontriamo molte realtà, comparabili ma peculiari, difficilmente riducibili a una pianificazione organizzata. Tale complessità è, però, un valore aggiunto se, dietro l’impulso della transizione ecologica, si consolideranno forme pattizie di governance: una politica negoziata, abile a non passare in secondo piano le problematiche specifiche vissute dalla popolazione sui territori e a mettere al centro la progettualità locale, sulla scia di quanto avviene in Francia con i Contratti di transizione ecologica (CTE).

Il post-sisma è cruciale, come lo sono anche le questioni legate al c.d. ‘capitale umano’ (l’importanza della manodopera migrante nel ciclo produttivo, su cui vd. il libro di Maria Molinari, Un Territorio Immaginato. Vecchie e nuove migrazioni in un paese di Appennino, MUP, 2020) e all’accaparramento dei terreni da pascolo nelle valli abruzzesi da parte della mafia, per incassare i fondi comunitari. 

 “Quello che manca, in realtà”, leggiamo ancora nel documento, “sono i cluster organizzati che facciano sintesi tra i territori appenninici per superare le criticità e agevolare l’attuazione del PNRR da parte di imprese, comunità e amministrazioni locali”. Il modello culturale di riferimento è quello alla base di “Appennino Parco d’Europa” (APE), un progetto-quadro del 1995, nel quale soggetti pubblici (Ministero, Regioni, enti parco, enti locali) e privati (imprese, associazioni, cooperative, comunità locali) cercano un “punto di raccordo” per lavorare insieme allo sviluppo sostenibile. Insieme alla strategia attuativa della Convezione degli Appennini (2006), “se opportunamente aggiornati”, entrambi i dispositivi potranno “rispondere al meglio” all’ “esigenza di coordinare i territori per meglio utilizzare le risorse”.

Gestori capaci dei progetti europei e dei programmi di sviluppo rurale a base regionale, dal canto loro i Parchi sembrano pronti, nella citata tendenza all’ampliamento delle aree protette, a farsi alfieri del coordinamento auspicato per una gestione ottimale delle risorse e una maggiore tutela dei molti contesti coinvolti.

La mission

Sappiamo, da un rapporto dell’IPSOS appena pubblicato, che solo il 9% della popolazione sarebbe disposto a trasferirsi in pianta stabile in montagna. Bisognerebbe forse partire da qui, perché la nostra rappresentazione ‘mediata’ (per chiunque non abiti quei luoghi) appare falsata su almeno due piani di lettura: la rinascita dei territori (ritorno alla terra, flussi bidirezionali, progetti di lungo periodo, Green Communities) come imperfetto tentativo di contrastare la sfida ambientale (buoni propositi; risultati sì, ma parziali e non assicurati); lo scetticismo tout-court, a partire da quello ministeriale, che con nuovi equilibrismi non cesserà di sorprenderci, sconfessando la ‘mission’ che oggi dà statuto al Ministero – l’attenzione per le rinnovabili non pare essere una priorità del nuovo Esecutivo.

Eppure, ogni lettura ‘piatta’  è un’astrazione dal processo già in atto: coinvolgendo un numero di attori sempre maggiore, e assistito da politiche responsabili, esso è in grado di contribuire alla rinascita culturale degli Appennini.

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