Crediti immagine: Omar Di Felice instagram

Omar Di Felice, l’ultraciclista che sfida l’estremo per sensibilizzare sulla crisi climatica

Nel cuore di una natura incontaminata, dove l’aria è gelida e il paesaggio incanta, c’è qualcuno che pedala senza sosta per portare un messaggio urgente al mondo. Omar Di Felice, campione Ultracycling, ci ha svelato quale strategia utilizza per sopravvivere ai -30 gradi dell’Antartide e parlare di cambiamento climatico.

Bici, natura, avventure estreme e una passione particolare per l’inverno. Questa la ricetta vincente per Omar Di Felice, campione romano di Ultracycling. Un uomo che ha saputo coniugare l’amore per uno sport e la sensibilizzazione sulla più grande sfida che l’umanità si trova ad affrontare: il cambiamento climatico. Da sempre appassionato di bici, negli ultimi anni ha iniziato a ricercare sfide nuove in territori dove nessuno si era mai spinto sui pedali. Ben presto, dalla voglia di misurarsi con i propri limiti fisici, questa sfida ha assunto connotati più divulgativi diventando mezzo per sensibilizzare un pubblico sempre più vasto su quanto sta accadendo al nostro Pianeta. Recente vincitore della Trans America Bike Race, tra le più lunghe e difficili gare di ultracycling al mondo, l’abbiamo raggiunto per fare quattro chiacchiere e scoprire il segreto del suo modo di comunicare.

Stai dedicando la tua vita ad attraversare terre selvagge e remote su due ruote, da dove nasce tutto questo?

La mia passione per la bici inizia da piccolo, quando avevo all’incirca 13 anni guardando ciclisti professionisti. Le due ruote mi accompagnano da anni e nel tempo mi sono spinto verso avventure sempre più estreme in luoghi molto particolari come, il Circolo Polare Artico, l’Antartide o per esempio con l’ultima avventura in solitaria nella regione himalayana del Ladakh in India.

Perché spingersi in luoghi così estremi?

Le sfide mi piacciono e viaggiare in questi luoghi porta a vedere con i propri occhi la crisi climatica. Mentre il nostro Pianeta affronta una crisi senza precedenti, con il clima che si riscalda e l’ambiente che subisce danni irreversibili, Io ho deciso di fare la mia parte e ho deciso di agire. Lasciando alle spalle la comodità e la routine della vita quotidiana, ho abbracciato l’avventura su due pedali come mezzo per diffondere consapevolezza e ispirare azioni positive.

Crediti immagine: Omar Di Felice instagram

Il tuo progetto si ferma all’esplorazione di luoghi incontaminati?

No. Ho voluto unire la mia passione per il ciclismo e il desiderio di raccontare la crisi climatica. Tutto è partito dalla COP26 di Glasgow, la prima che ha raggiunto il grande pubblico. In quella occasione ho pensato di fare un gesto simbolico e ho pensato di arrivarci in bici. Proprio in quell’occasione ho lanciato il progetto “Bike to 1.5°C”, un’iniziativa che comprende la diffusione, attraverso i miei canali social, delle mie avventure e dall’altra parte diverse attività di divulgazione nelle scuole primarie e secondarie sul cambiamento climatico.
Cerco di affiancare le mie attività alla parola di esperti e scienziati perché è la scienza che dobbiamo ascoltare per minimizzare le conseguenze dell’aumento delle temperature.

Un atleta come te, quanti chilometri percorri in un anno mediamente?

Indicativamente tra allenamenti e gare percorro circa 30-40 mila chilometri all’anno.

Quanto tempo serve per organizzare una delle tue avventure?

La gestione e preparazione del tour dipende dalla meta ma anche da quanto tempo sarà lunga l’avventura. Solitamente impiego diversi mesi, se si tratta di viaggi da poche settimane e luoghi meno impervi. Mentre per posti più difficili come l’Antartide, che è l’ultimo luogo accessibile all’essere umano, la preparazione mi ha richiesto anni di pianificazione.

In Antartide, quali sono state le criticità?

In luoghi come l’Antartide ti rendi conto di quanto siamo piccoli di fronte alla natura. Questo è un luogo con una superficie pari all’intera Europa è uno dei luoghi più incontaminati della Terra in cui non c’è ombra di civiltà per decine e decine di chilometri. La differenza rispetto ad altre missioni è che questa mi ha messo davanti alla necessità di una preparazione verso qualsiasi imprevisto. Mi ha fatto comprendere cosa vuol dire non avere tutte quelle comodità che vivo nella vita di tutti i giorni. In luoghi estremi devi imparare a cavartela e a risolvere ogni imprevisto.

In queste avventure, vissute in solitaria, come te la cavi se hai bisogno di soccorso?

Io organizzo il tour in maniera meticolosa e creo una rete in mio supporto che da remoto è pronta a intervenire in caso di bisogno, come è successo in Antartide, dove mi sono fermato prima della fine del percorso.

Crediti immagine: Omar Di Felice instagram

Quale l’esperienza più emozionante e cosa ti sei portato dentro?

Decisamente, l’esperienza nel deserto del Gobi in Mongolia. Io mi trovavo lì quando è scoppiata l’emergenza COVID, quindi, è stata sotto tutti i punti di vista l’esperienza che più mi ha segnato. Ho avuto modo di vivere per due mesi a contatto con le popolazioni nomadi locali ed ho potuto capire i reali problemi che il cambiamento climatico sta comportando in villaggi che vivono disconnessi dal mondo reale.

Cambiamo per un attimo argomento. Come ci si sente a essere il primo italiano a vincere la Trans America Bike Race una tra le più lunghe gare di ultracycling unsupported?

Questo risultato è stato una grande soddisfazione personale, sicuramente. Si tratta di una gara di quasi 7.000km che ti porta da una costa all’altra dell’America, in cui si attraversano più di sette stati e vince chi ci mette meno tempo. In questa occasione, oltre al risultato sportivo, ho toccato sulla mia pelle gli eventi estremi sempre più frequenti che gli Stati Uniti d’America stanno vivendo ed è stato un grande sforzo fisico, nel vero senso della parola (ho messo a dura prova la mia pelle) e anche mentale.

Il momento più complicato della gara?

Attraversando l’America, passi da climi e condizioni meteo fortemente diverse in poco tempo. Ci sono stati giorni di grandinate e piogge veramente intense. Per esempio, negli ultimi due giorni in Virginia, uno stato in cui in primavera le temperature sono simili all’Italia, mi sono ritrovato a pedalare a 5-6°C sotto piogge torrenziali. Questo mi ha costretto a fermare la mia gara perché non ero con l’attrezzatura adeguata, ma è stato tutto totalmente inaspettato.

Dopo la tua ultima solitaria nel deserto del Ladakh, in India, cosa bolle in pentola?

Il progetto “Alone in Ladakh” mi ha portato a esplorare per 11 giorni una regione, nelle zone Himalayane, dove niente deve essere sopravvalutato. È stato un modo per ripartire dopo la delusione in Antartide dove mi sono dovuto fermare e finire in anticipo la mia avventura. E ora dopo l’ultima gara è il momento di fermarsi un po’ per ricaricarsi e ripartire con ancora più energie per il futuro.

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