La polemica degli Ottomila, Eberhard Jurgalski spodesta tutti

Non sono solo Reinhold Messner e Nirmal Purja ad essere finiti sotto la lente d’ingrandimento di Eberhard Jurgalski. Sono decine le salite da rivedere secondo la ricerca condotta dal giornalista tedesco, tanti gli alpinisti che perdono salite e primati.

Jerzy Kukuczka, Krzysztof Wielicki, Erhard Loretan, Edurne Pasaban, Gerlinde Kaltenburnner e anche gli italiani Silvio Mondinelli e Sergio Martini. Sono alcuni dei nomi, che si aggiungono a quelli di Reinhold Messner e Nirmal Purja, a cui vengono contestate le salite dei 14 Ottomila da parte del giornalista tedesco Eberhard Jurgalski che ha dedicato gli ultimi dieci anni a uno studio approfondito per identificare le salite che avrebbero raggiunto la “vera vetta” di un Ottomila. Cos’è la vera vetta? Il punto più alto di una montagna, molto semplice e intuitivo. Meno semplice e meno intuitivo il risultato della ricerca, che spoglia da cime e vette una intera generazione di alpinisti, andando anche a toccare alcune leggende indiscusse dell’alpinismo. Uomini e donne che, a quelle quote hanno speso tutto, hanno dato tutto, spesso portandosi oltre ogni limite.

Gli Ottomila persi

Jerzy Kukuczka, Erhard Loretan, Peter Habeler, ma anche le due primatiste femminili Edurne Pasaban e Gerlinde Kaltenbrunner, sono stati riclassificati con un numero di vette che da un minimo di 11 a un massimo di 13. Abbiamo poi il caso di Denis Urubko, che nella lista di Jurgalski figura anche lui in difetto di vette. Per lui a mancare sono Dhaulagiri e Manaslu, le cui cime sono indicate come “nessuna prova”, e anche il Cho Oyu, segnato invece come “nessuna cima con prove o indizi”.

Per l’italiano Sergio Martini, il secondo italiano dopo Messner ad aver completato la scalata dei 14 Ottomila, i pezzi mancanti sarebbero Annapurna e Manaslu. Nel primo caso la nota è “mancanza di prove”, nel secondo “cima mancata”. Nella stessa situazione anche Silvio Mondinelli e con lui molti Altri. Jerzy Kukuczka sarebbe fermo a 13 Ottomila, secondo il file, con la vetta del Manaslu mancante. Esattamente come l’altra leggenda polacca, Krysztof Wielicki, anche lui mancante di Manaslu. E così anche Nives Meroi e Romano Benet, mentre Gerlinde Kaltenbrunner (la seconda donna al mondo ad aver completato la salita dei 14 Ottomila) sarebbe ferma a 12, senza Manaslu e Dhaulagiri.

Lo stile conta

“La storia dell’alpinismo va riscritta”. A dirlo è Eberhard Jurgalski. E sì, la vetta è un punto geografico preciso e indiscutibile. Ma come si può valutare una salita alpinistica ad altissima quota solo su questa base? Sicuramente Jurgalski ha fatto un gran lavoro toponomastico, ma l’alpinismo è tutt’altro. L’alpinismo è una questione di mezzi e di scelte etiche, di stile. Impossibile valutare il valore di una salita solo sulla base di un punto geografico. Non stiamo parlando dei 400 metri piani, ma di un’attività dove le variabili sono infinite. E forse sì, potrebbe anche aver ragione dicendo che la storia dell’alpinismo va riscritta, ma siamo davvero sicuri che siano questi i parametri da prendere in considerazione? Guardiamo per esempio al Piolet d’Or, alle modalità con cui la giuria identifica e poi attribuisce il riconoscimento (a oggi il più importante a livello alpinistico) agli alpinisti che le hanno realizzate. Le metriche cambiano di anno in anno, in base alla sensibilità dei giurati, ma mai è successo che venissero prese in considerazione solo il numero di vette raggiunto. Anche perché, se davvero vogliamo ragionarla in questo modo, allora Walter Bonatti non avrebbe diritto di stare nella storia dell’alpinismo himalayano. Non ha raggiunto la vetta del K2, a differenza di Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Ha senso questo ragionamento?

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