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“Torbiere d’alta quota”. Archivi climatici

È possibile mappare il clima nella sua evoluzione osservando un particolare ambiente naturale?

“Torbiere d’alta quota”: un progetto per studiare il clima. Cose da paleoclimatologi, ma d’interesse pubblico! Soprattutto se, in tempi di dissesto idrogeologico, serve a prevenire “eventi estremi”, portatori di effetti gravissimi e di sofferenze che stiamo puntualmente vivendo in questi ultimi anni. Secondo l’ultimo rapporto ISPRA del 2021, in Italia gli abitanti soggetti a rischio di alluvioni e frane sono complessivamente più di 8 milioni.

Quali sono, però i criteri di scelta degli ambienti, e dove cercare le informazioni?

Un esempio di rilievo, per l’originalità e i suoi possibili sviluppi, arriva dall’Appennino emiliano: un Progetto sperimentale nato nel 2017, che elegge a campo di osservazione un ambiente peculiare e protetto (perché raro e residuale): le “torbiere d’alta quota”. Al Progetto collaborano il Servizio geologico sismico e dei suoli (SGSS), l’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia (ARPAE) e, dal 2021, il CNR-ISMAR (Istituto di Scienze marine) di Bologna. Sul piano applicativo, lo studio è in linea con le Strategie regionali di «mitigazione e adattamento al cambiamento climatico» e di «sviluppo sostenibile» (in attuazione dell’Agenda 2030), e contribuisce a definire scenari di intervento sul territorio quali azioni di protezione civile e di prevenzione e riduzione dei rischi da calamità naturali. 

Ambienti fortemente acidi, formati da sedimenti fini e materiale organico di origine vegetale, le torbiere contengono informazioni sui cicli di deposizione delle piene alluvionali e possono, a tutti gli effetti, considerarsi degli “archivi geologici naturali”. Ma perché risulterebbero particolarmente idonee a tracciare eventi occorsi in un passato, anche remoto, per aiutarci a prevenire disastri futuri?

Le parole del meteorologo Federico Grazzini

Ci introduce a questo “viaggio nel tempo” Federico Grazzini, meteorologo e previsore per l’ARPAE, che insieme al geologo Stefano Segadelli (SGSS), padre del progetto, ha condotto una serie di sondaggi in tre zone dell’Appennino emiliano: la piana lacustre del lago Moo (Ferriere, PC, 2017), quella di Lagdei (Corniglio, PR, 2018) e la torbiera di Febbio-Pianvallese (Villa Minozzo, RE, 2020).

Parliamo di un ambiente sostanzialmente intatto, non lavorato dall’uomo. Proprio la scarsa incidenza umana è un aspetto essenziale perché ci permette di confrontare i casi di oggi con quelli di epoche molto lontane. Se effettuo una comparazione in una qualsiasi altra zona che è stata antropizzata, perdo l’integrità del ciclo geologico. Inoltre, normalmente le torbiere drenano piccoli bacini che non sono stati modificati nel tempo, per cui ci troviamo in una condizione ideale, di ‘laboratorio naturale’, per avanzare una serie di assunzioni valide anche per eventi passati”.

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Attualità del Progetto Torbiere d'alta quota

Al cuore dell’indagine, finanziata principalmente dalla Regione (Servizio meteorologico, Servizio geologico, Agenzia per la Protezione civile), sta la problematica degli eventi climatici estremi. “Negli ultimi 10 anni”, prosegue Grazzini, “anche in Emilia Romagna si è avuto un aumento sensibile di casi di precipitazione intensa – pensiamo alle alluvioni nelle valli del Nure (2014) e del Parma (2015). Svolgendo per l’ARPAE un’attività quotidiana di monitoraggio e analisi dei danni con il supporto di idrologi e geologi, ho conosciuto Stefano Segadelli. 

Analizzavamo casi passati dal punto di vista degli effetti al suolo. Nel 2015, ad esempio, in Val Trebbia i danni erano molto consistenti. Pur trattandosi di una zona poco abitata, i rilievi effettuati sul terreno e le opere idrauliche danneggiate (dighe) testimoniavano di un evento particolarmente intenso. Ci siamo allora chiesti: questi eventi estremi stanno diventando sempre più devastanti… Ma nel passato, sia storico che geologico, si sono mai verificati eventi del genere? Come possiamo trovarne traccia? Proprio in Val Trebbia erano rimaste sul terreno 300 colate detritiche! Se non è modificata, la traccia rimane ed è perciò possibile verificare, in un contesto adeguato, se anche per il passato si danno informazioni analoghe relative ad altri eventi. 

Da qui è nata l’idea: Stefano ha proposto di usare le torbiere come archivi naturali per verificare la presenza di eventi comparabili.

Sul campo

Nel 2017, dopo vari sopralluoghi, viene effettuato il primo carotaggio in corrispondenza di un piccolo lago del Piacentino sito a 1110 m: il Lago Moo. I risultati saranno poi pubblicati sulla rivista europea Climate of the Past (vol. 16, n. 4/2020).

Abbiamo messo in piedi una piccola squadra”, racconta Grazzini. “Oltre al carotaggio, altre analisi – come la datazione al carbonio-14 e l’analisi dei pollini – sono state utili a capire se si potesse ricostruire una storia degli eventi. Tuttavia, come spesso accade, la realtà risulta più complessa: non è così semplice ottenere una stratigrafia perfetta di tutti gli eventi accaduti in passato. Per molti motivi confondenti, resta sempre un margine di dubbio. Anche il metodo d’indagine adottato non ci consente di datare esattamente un dato evento. Andando indietro nel tempo, siamo comunque riusciti a individuare epoche in cui questi eventi erano più o meno frequenti”.

Focus cronologico dell’analisi è la fase post-glaciale (dall’ultima glaciazione fino ad oggi), ossia gli ultimi 12.000 anni di testimonianza climatica: “Se ne trova traccia nei depositi della depressione del Moo. I grandi periodi climatici individuati presentano forti differenze nelle caratteristiche pluviometriche: un periodo relativamente caldo, intorno a 6000-5000 anni fa, al quale segue un periodo più freddo, fino a 4000-3000 anni fa, per giungere a quello più vicino al nostro. I primi due periodi, tenuto conto anche delle caratteristiche della vegetazione, confermano una forte differenza nella tipologia di precipitazioni. Nel periodo caldo, queste sono state più rare, ma più intense, con un ingente trasporto di detriti; in quello freddo, un po’ più secco, si sono avute precipitazioni più frequenti (una tendenza fisiologica), ma con minore trasporto. Nel periodo più recente, la presenza di detriti nella depressione è decisamente aumentata”.

Criticità

Al momento, l’indagine è in corso e gli ultimi dati sono in attesa di essere elaborati. A un primo bilancio, alcune questioni restano sul tavolo e la domanda ben precisa che si sono posti i ricercatori attende ancora – spiega il meteorologo – una risposta: “Non avevamo la risoluzione temporale per fornire una risposta certa. Anche dal punto di vista stratigrafico, non siamo riusciti a individuare eventi singoli ‘macro’ così forti come quelli che si sono visti nei tempi recenti.

La torbiera appenninica è una depressione che riceve materiale da piccoli affluenti superiori. Quindi se la colata detritica è associata in maniera univoca a un evento estremo meteorologico, ogni volta che notiamo uno strato di deposito di ghiaia, ciò significa che un evento l’ha generato. L’idea è semplice e affascinante. Purtroppo, è difficile capire quale sia il punto migliore dove bucare e cosa c’è sotto. La depressione del Moo è quasi tutta riempita, livellata: una piccola pianura d’alta quota. Se buchiamo nel mezzo oppure nella parte più sommitale, le informazioni sono diverse: più ci muoviamo verso il centro, più selezioniamo eventi tanto intensi da aver raggiunto la parte centrale, mentre altri resteranno ‘fermati’ nella parte sommitale. Altro aspetto non trascurabile: spesso si tratta di depositi di qualche millimetro di spessore, da valutare su carote di varia metratura (abbiamo perforato tutto il lago, dalla superfice fino a 14 m di profondità)”.

Ne emerge un quadro complesso: sicuramente in passato si sono avute mutazioni importanti, e questo ci fa riflettere meglio sull’esperienza attuale, sul legame diretto tra forti oscillazioni climatiche e il loro impatto sul territorio.

Bilancio e prospettive

Le ricerche effettuate”, conclude Grazzini, “accrescono la nostra consapevolezza sul livello di sfida che abbiamo di fronte: qualcosa di mai visto prima  – più preoccupante! – o qualcosa che il territorio ha già sperimentato? E se l’avesse sperimentato in un tempo in cui l’uomo magari esisteva, ma la società aveva tutt’altro aspetto, sarebbe altrettanto rilevante?” 

“La storia nota dei fenomeni geologici che hanno interessato la nostra Regione ci parla di enormi frane, ma probabilmente sono fenomeni diversi. Nel periodo freddo di cui parlavo, le frequenti precipitazioni, benché non troppo intense, hanno determinato una saturazione del suolo, che favorisce il distacco di frane. Allora le frane erano sicuramente molto più attive di oggi, il che è probabilmente imputabile a un tipo di clima più piovoso. Oggi, invece, stiamo parlando di un fenomeno inverso: le piogge calano di frequenza, ma diventano violentissime, tanto da erodere tratti superficiali di vegetazione e provocare colate di detrito in territori dove, normalmente, non ci sono. Questo non è un fenomeno tipico del nostro Appennino. Senza dubbio, stiamo assistendo a un’estremizzazione del ciclo idrologico: periodi di siccità (2017, 2022) si alternano alla violenza delle piogge. In Val Trebbia, nel 2015, in poche ore furono modificati gli alvei”.

Con ogni probabilità, il progetto conoscerà ulteriori evoluzioni nel 2023. Per ora rimane un’iniziativa coraggiosa, in grado di suggerire raccomandazioni in termini di politica ambientale, non solo regionale: come lucidamente suggerisce il ricercatore, “Occorrerà non solo trovare finanziamenti e team di ricerca motivati, ampliando i metodi di indagine, ma prendere coscienza della fragilità del territorio e perciò impiegare i fondi nella gestione dei fiumi e degli invasi. Sono lavori che richiedono tempo e, se non si avviano subito, è difficile che saranno efficaci… In ogni caso, sul primo aspetto, c’è ancora molto da scrivere: il cantiere è aperto!”.

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«La montagna sia ancora più vicina alle famiglie» – Mountain Genius
1 anno fa

[…] 9 Dicembre 2022 0 […]