Jerzy Kukuczka, il guerriero venuto dall'est

Nato nella Polonia del secondo dopoguerra, la leggenda dell’alpinismo Jerzy Kukuczka è scomparso sulla parete sud del Lhotse, 34 anni fa, per un banale incidente.

Non era longilineo e non seguiva un regime alimentare ferreo, ma aveva una capacità di sopportazione e un intuito fuori dal comune. Nel suo modo di affrontare le montagne Jerzy Kukuczka raccontava vicende epiche che lo rendevano quasi un guerriero d’altissima quota. Nel suo approccio c’era una determinazione fuori dal comune, disposta ad assumersi rischi altissimi per il risultato. Alla fine, se l’è portato via un incidente banale, su una parete spaventosa, la sud del Lhotse. Stava provando a salirla con il compagno Ryszard Pawłowski. Dovete pensare a un muro verticale, enorme, mai salito da nessuno prima. E due giovani polacchi che ce la mettevano tutta, sfidando difficoltà proibitive e condizioni ai limiti dell’estremo. Così fino a circa 8200 metri, già pregustando il successo. A un tratto poi, la rottura di una vecchia corda a cui Kukuczka si era appena assicurato e il volo nel vuoto. Comprata su una bancarella di Kathmandu, la corda era marcia e a ogni strattone si è logorata sempre più, fino a sfilacciarsi del tutto lasciando andare per sempre il più grande alpinista della sua generazione.

Il guerriero venuto dall’est

Sono passati 34 anni da quel giorno, dal giorno in cui Jurek, come lo chiamavano gli amici, ha lasciato per sempre i suoi sogni terreni. Eppure la sua figura ha avuto forse più riconoscimenti dopo che prima. Messner, gliel’aveva detto: “sei il più grande”. Ma nell’opinione pubblica occidentale quei ragazzi dell’est di cui faceva parte anche Kukuczka facevano fatica a emergere. Non sapevano nemmeno come pronunciarlo, quel nome polacco. E poi, quelle loro imprese, lasciavano interdetti. Kukuczka e i suoi compagni scalavano le vette più alte dell’Himalaya in inverno? Succedeva dall’inverno del 1980, quando Krysztof Wielicki e Leszey Cichy raggiunsero la vetta dell’Everest nel cuore dell’inverno. Era il 17 febbraio 1980 e stavano aprendo le porte a una stagione che avrebbe consacrato Kukuczka come un guerriero. Le poche informazioni che filtravano oltre la cortina di ferro riportavano il suo nome a un ritmo incredibile, esattamente come le prime ascensioni compiute. Lui e gli altri ragazzi polacchi macinavano Ottomila a una velocità sorprendente, e lo facevano con mezzi ridicoli rispetto a qualunque collega occidentale. Lo facevano per le vie più difficili e nella stagione più difficile, quella invernale. Il curriculum di Kukuczka parla chiaro. In soli 8 anni, la metà di quanto impiegato da Messner, ha scalato tutto e 14 gli Ottomila. Jerzy “aveva bisogno della montagna come fosse il pane. Le vette lo attraevano come una calamita, una passione senza fine”. Così lo racconta la moglie Cecylia. Così racconta di quel tornado che ha sconvolto il mondo dell’alpinismo. I suoi 14 Ottomila sono infatti qualcosa di mai ripetuto: dieci li scala per vie nuove, quattro nel cuore della stagione invernale, tra cui spiccano Dhaulagiri e Kangchenjunga in prima assoluta. Kukuczka aveva fame e non conosceva il significato della resa. La sua ambizione era desiderio di riscatto sociale, un sentimento nato tra le strade della Polonia del secondo dopoguerra e trasportato in cima al mondo.

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