Digital divide: burocrazia più lenta della connessione. Intervista a Marco Bussone

Città iperconnesse e aree montane tagliate fuori dalla rete internet. Il digital divide è un problema per lo sviluppo delle terre alte, a parlarcene Marco Bussone, presidente dell’Uncem

Quando si pensa al divario digitale, spesso ci si riferisce alle diverse capacità tra generazioni di padroneggiare gli strumenti tecnologici. C’è però un divario digitale molto più diffuso, spesso ignorato: quello che separa le città dalle aree rurali e montane, con le prime iperconnesse, le seconde dimenticate da Stato e operatori privati. Vuoi per gli elevati costi infrastrutturali, vuoi per la scarsa redditività di queste zone, chi vive lontano dai grandi centri urbani si trova spesso tagliato fuori dalla rete, un’emarginazione che, in tempi di smartworking e lavoro agile, assume contorni sempre più critici.

Ne abbiamo parlato con Marco Bussone, presidente dell’Uncem (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani).

Quanto è ampio il digital divide tra centri urbani e aree rurali e montane?

C’è un distacco enorme: le grandi città che hanno reti in fibra ottica e servizi digitali, mentre le zone rurali e montani interne del Paese questi servizi non li hanno o comunque li hanno con velocità di navigazione più basse perché l’infrastruttura digitale è molto più fragile, più lenta, più debole. E non parlo della rete 5G, che non esiste da nessuna parte se non in qualche grande città: nelle aree diciamo rurali e agricole le situazioni sono molto più delicate e complicate, non è un problema che dipende dall’altitudine dei comuni, i disagi ci sono anche per quelli che non sono in cima al cucuzzolo. Sono zone che da ormai vent’anni soffrono per via di un problema enorme di mancanza di infrastrutturazione: gli operatori digitali si muovono solo dove c’è una remunerazione, dove il loro investimento è ripagato in tempi adeguati. Dove non arriva il privato, dunque, deve arrivare lo Stato. Come si colma una mancanza di reti e di infrastrutture se il privato non investe? Non potendolo obbligare, occorre che intervenga lo Stato nelle sue articolazioni, in particolare Stato centrale e Regioni.

Quanto ha inciso la pandemia da Covid-19 su questo divario? Le modalità di lavoro durante i lockdown, pensiamo al lavoro agile e allo smartworking, hanno colmato le distanze?

No, anzi: c’è stato un peggioramento. Abbiamo registrato una serie di problematiche ancor più gravi e in qualche modo ancor più pericolose per lo stato delle cose. Il Paese, nel corso del Covid-19, ha maturato la consapevolezza sul fatto che esiste un digital divide crescente e pericoloso. Non è stata la prima volta che è successo: anche quando DAZN ha portato il campionato di calcio interamente su internet ci sono state avvisaglie. I due fenomeni, sebbene siano diversissimi tra loro, si possono accomunare perché hanno riguardato tutti trasversalmente e reso evidente un problema già presente per ampie fasce di popolazione. La rapidità di questi eventi ha evidenziato la mancanza di programmazione dell’Italia: ci siamo accorti del divario digitale quasi per caso, non abbiamo mai fatto in questo Paese un serio lavoro di esame e di elaborazione. Il divario digitale è infatti un’emergenza che affonda le radici in oltre cento anni di storia fra territori “infrastrutturali” e “non infrastrutturali”. Ha interessato prima le strade, poi l’energia elettrica, infine le reti digitali. Il lockdown ha esacerbato queste disparità territoriali e geografiche e se non fosse stato per alcune tecnologie sviluppate dai privati, in particolare le connessioni FWA e quelle satellitari, molti italiani non avrebbero avuto segnale internet adeguato e sarebbero stati ancor più isolati di quanto non siano già.

Eppure lo Stato aveva messo a terra un piano nazionale per potenziare le infrastrutture telematiche…

Vero, ma è tutto fermo da tempo. Il problema delle connessioni scarse non ha radici nel 2020, quando è scoppiata la pandemia, ma è nato ben prima, quando ci sono state enormi criticità nell’impostare il piano della banda ultralarga. Era un piano molto intelligente, andava nella direzione per cui dove non interviene il privato subentra lo Stato. Nello specifico, si parla di 3 miliardi di euro di investimento per portare la fibra ottica e i segnali digitali nei territori montani le aree ‘bianche’, senza segnale, che avevano bisogno di intervento pubblico data la loro scarsa redditività. Peccato che quel piano, che quanto è arrivato il Covid-19 doveva essere già ultimato, non è stato portato avanti rispettando i tempi, lasciando molte persone isolate. È stata una pagina vergognosa: si è investito male e non si sono raggiunti gli obiettivi che sarebbero stati necessari per affrontare la pandemia in sicurezza. Ancora oggi il piano va avanti tra mille rallentamenti. Il progetto doveva dare risposte in termini anche politico istituzionali e non c’è riuscito. Avevamo grandi attese, eravamo convinti potesse funzionare perché invertiva un meccanismo per cui lo Stato stava a guardare di fronte all’inefficacia degli operatori su quei territori. Ha avuto il merito di farci capire che la burocrazia ci mette sempre lo zampino e, quando lo fa, blocca tutto, anche le migliori idee e intenzioni.

Quale futuro per le telecomunicazioni nelle aree rurali e montane?

Mi aspetto innanzitutto che lo Stato definisca che cosa fare della rete pubblica, quella in rame. Dopo due anni di tira e molla spero che ci siano chiarimenti rispetto al futuro della rete pubblica. Bisogna capire se Tim rimane italiana, se entrano fondi americani, quale sarà il ruolo di Vivendi e di altri Paesi. Garantirsi una rete pubblica, per un paese europeo come l’Italia, mi sembra necessario. Mi aspetto sulle reti mobili degli investimenti analoghi al modello dell’Emilia-Romagna, che ha realizzato tralicci nei comuni montani come Regione investendo risorse pubbliche. Su queste strutture gli operatori hanno installato i loro ripetitori, essendo stati sgravati di carico burocratico e di costo dei tralicci. E poi mi aspetto una consapevolezza maggiore sui tanti svantaggi digitali ‘nascosti’ che ha la popolazione delle aree rurali e montane. Mi riferisco non alla questione delle reti fisse e mobili, ma all’assenza di infrastrutture televisive adeguate: in Italia tra i 3 milioni di italiani non riescono a vedere i canali RAI, almeno in 10 milioni hanno difficoltà con l’intero palinsesto televisivo. In 3900 aree del Paese uno o più operatori non prendono: sono aree più o meno grandi, più o meno abitate. Abbiamo una mappatura di un piano banda ultralarga che ha tre anni di ritardo e che non arriva ancora nelle valli. Mi auguro che ci sia una lettura istituzionale e poi tecnica congiunta. Rispetto al divario digitale, vale il principio dei vasi comunicanti: una questione risolve l’altra, se si investe anche solo su un singolo ambito il resto viene da sé.

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