9 ottobre 1963: 60 anni fa la tragedia del Vajont

60 anni fa la tragedia del Vajont, raccontata attraverso gli occhi e la testimonianza di una sopravvissuta, Gervasia Mazzucco.

Longarone. Enorme e grigio si staglia nel mezzo della valle il muro in cemento della diga del Vajont. “Rimane a testimonianza dell’idiozia degli uomini”, racconta Gervasia Mazzucco, una delle superstiti a quell’indescrivibile sciagura, all’ondata che in una manciata di secondi, intorno alle 22.40 del 9 ottobre 1963 si portò via l’esistenza di un’intera comunità. Oggi fa l’insegnante, ha un sorriso che parla di una vita felice e due occhi che trasmettono una storia. Dopo un lungo silenzio, negli ultimi anni ha scelto di raccontare la sua tragedia.

“La mattina dopo c’era un silenzio enorme, sentivi solo qualche sasso rotolare. Ricordo un gruppo di uomini che guardavano verso la montagna, senza parole”. Questo era il 10 ottobre, ma prima, la sera prima, c’era tutt’altro: “Tu sei dentro al rumore. Non si può far capire. È una cosa inumana, che ti paralizza. Ricordo che non riuscivo a muovermi, ero paralizzata da quel suono. Mio fratello urlava ‘scappa, scappa’. ‘È la fine del mondo’ gridava mia nonna”. Marcella era solo una bambina al tempo. “Quella notte ero interessata al faro sul Toc, per me che avevo otto anni era un’attrazione. Ricordo che passai ore a fissarlo dalla finestra”. Lo sguardo tradisce emozione, si ferma un istante, poi ricomincia. “Ero a letto da un quarto d’ora poi, la fine del mondo, mio fratello spalancata la porta ha iniziato a urlare ‘scappa’ ma io non riuscivo a muovermi, ero paralizzata dalla paura, da quel rumore infernale. Mi ha coperto e mi ha portata via. Fuori era tutto pieno d’acqua, il figlio del vicino correva, correvamo tutti. Sulla strada ho incontrato mia cugina, era ferita ‘vai a trovare mia mamma, vai’ urlava”. Quella notte ci ha cambiato la vita: a me e a tutti gli altri che erano qui”.

Gervasia è di Casso, qui l’onda è arrivata dall’alto. “È precipitata sul paese da ottanta metri di altezza, mio zio era in piazza in quel momento. È sparito. Eravamo in dieci in famiglia, ma dopo quella notte non avevo più niente e nessuno.

 

Mamma, zio e zia sono spariti nel nulla. “Io mi sono ritrovata in un orfanotrofio a Venezia. Non ero più nulla, avevo perso la mia identità. Ogni giorno, quando mi svegliavo, per me era un dolore immenso, ero persa”. Per anni è stata tormentata dagli incubi. “Sono potuta tornare qui, a Casso, perché avevo ancora i nonni” ma non è stato facile. “Sognavo di essere in un paese che non conoscevo, di cui non Sapevo la lingua. Sognavo di non avere un’identità, di non appartenere a una comunità. A noi è stato tolto anche il diritto a un funerale. Spesso i corpi non si sono mai trovati o quelli recuperati non erano identificabili. “Poter dare l’ultimo addio a un proprio caro è importante, noi non abbiamo potuto, non c’è stato un addio. Io sono sopravvissuta fisicamente ma mentalmente ero morta, ci sono voluti molti anni prima che iniziassi a raccontare la mia esperienza. Prima ho dovuto fare una ricerca interiore, dovevo ritrovarmi. Nel momento della ricerca camminavo, andavo su per i monti e cercavo il senso della mia vita. Quando ti avvicini alla morte in un modo così assurdo poi ti gusti la vita, hai la dimensione del niente che attraversa la nullità.

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