K2, la prima salita invernale

Il 16 gennaio 2021, alle 16:57 locali, 10 alpinisti nepalesi si abbracciavano in cima al K2. Sono i primi uomini nella storia a raggiungere la gli 8611 metri della seconda montagna della Terra in inverno. Si chiude così l’ultimo capito dell’himalaysmo invernale.

Sono le 16:57 pakistane del 16 gennaio 2021 quando un gruppo di 10 alpinisti nepalesi (Nirmal Purja, Mingma Gyalje Sherpa, Gelje Sherpa, Mingma David Sherpa, Dawa Tenjing Sherpa, Kili Pemba Sherpa, Mingma Tenzi Sherpa, Sona Sherpa, Dawa Temba Sherpa, Pem Chhri Sherpa) si abbraccia in cima al K2 scrivendo l’ultimo capitolo di una storia lunga quarantuno anni, quella dell’himalaysmo invernale. Da quando, nella stagione 1979/1980, i polacchi sono riusciti a raggiungere la cima dell’Everest nel cuore della stagione fredda alcuni dei migliori alpinisti al mondo si sono cimentati in questa sfida ai limiti della resistenza umana. Sugli Ottomila, in inverno, si innescano condizioni che possono facilmente diventare estreme. Salirli significa avere pazienza e calcolare al millimetro la strategia. Le finestre di bel tempo sono sempre troppo corte e le correnti a getto, masse d’aria ad alta velocità che si muovono da est a ovest, sono un nemico invisibile con cui si deve imparare a fare i conti. Guai a trovarsi in quota quando queste investono la montagna, soffiano a 150 o più chilometri orari.

K2, l’ultimo colosso

Mano a mano che gli Ottomila vengono saliti nella più temibile delle stagioni i pensieri degli specialisti invernali si portano al K2. Sono sempre i polacchi i primi a provarlo, nell’inverno 1987/1988 si trovano ai piedi della montagna per tentare la scalata lungo lo Sperone Abruzzi. Sotto la guida di Andrzej Zawada, già capospedizione dell’Everest, riescono a toccare i 7300 metri di quota prima di arrendersi di fronte alle difficoltà della montagna e della stagione. Nel 2002/2003 ci prova una piccola spedizione internazionale guidata da Krzysztof Wielicki, quindi seguono tentativi da parte di alpinisti russi, uno del basco Alex Txikon e ancora i polacchi con una grande spedizione nazionale. In tutto sono sei le spedizioni che tentano, invano, di raggiungere la vetta della seconda montagna della Terra nel cuore dell’inverno. Nella stagione 2019/2020 ecco fare la sua comparsa al campo base Mingma Gyalje Sherpa, uno dei 10 nepalesi da primato. È un primo segno di cambiamento: da umili portatori gli Sherpa sono diventati protagonisti di primo piano sulle montagne più alte della Terra.

10 nepalesi in cima al K2

Si sono aspettati qualche metro sotto la cima, hanno atteso di essere tutti insieme prima di proseguire come un’unica squadra verso il punto più alto. Gli ultimi passi li hanno compiuti cantando l’inno nazionale nepalese, poi si sono lasciati andare alla gioia del momento mentre il tramonto li cingeva e l’ombra della grande montagna si allungava all’infinito. “Fratello a fratello, spalla a spalla, camminavamo insieme verso la vetta. Nessun programma individuale, nessuna avidità individuale, solo spirito di squadra con una visione condivisa” scrivevano pochi giorni dopo sui loro profili social. Una frase che svela tutto l’orgoglio di appartenere al Paese delle grandi montagne.

Dieci nepalesi: Nove Sherpa e un Ghurka. Due nomi che per i più significano ben poco e che spesso vengono recepiti nel modo sbagliato. Partiamo dal termine “Sherpa” che spesso, erroneamente, nel mondo occidentale viene usato per indicare i portatori d’alta quota. Gli Sherpa sono un popolo del Nepal che conta circa 150mila rappresentanti tra le montagne del Paese. Il nome traslitterato significa “uomini dell’est”. Se lo sono dati da soli, per distinguersi dalle altre popolazioni nepalesi provenienti dal Tibet. Abitano le pendici delle grandi montagne, i villaggi di valle, ed è qui che per molto tempo le spedizioni occidentali hanno reclutato i portatori per le loro spedizioni. Sono uomini dotati di eccezionale resistenza fisica e di un naturale adattamento alle altissime quote. Nirmal Purja appartiene invece all’etnia Gurkha, un popolo che abita il Nepal e l’India settentrionale. Il loro nome deriva dal guru guerriero Gorakhnath. Da qui vengono scelti gli uomini che entrano a far parte della Brigata Gurkha, corpo di élite dell’esercito britannico dove Purja ha prestato servizio per diversi anni.

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Da portatori a protagonisti

Per oltre mezzo secolo, fin dalle prime esplorazioni occidentali sulle montagne himalayane, questi uomini sono stati parte delle spedizioni occidentali. Prima umili portatori, poi gregari di grande capacità, guide d’alta quota e oggi protagonisti indiscussi sulle cime di casa. Un cambio di passo consacrato con la prima invernale del K2. Un evento che chiude un capitolo e apre le porte a un futuro di nuove opportunità, così come accaduto sulle Alpi oltre un secolo fa. Le grandi conquiste dell’Ottocento sull’arco alpino erano appannaggio dell’aristocrazia e della borghesia cittadina, raramente l’ambizione di scalare una montagna partiva dal valligiano. I montanari erano ingaggiati come portatori o guide, per aiutarli e supportarli nella salita. Conoscevano il territorio, sapevano come muoversi e come affrontare le insidie della montagna. Basta ripensare all’epopea del Cervino e alla figura di Jean-Antoine Carrel. Con l’andare degli anni i montanari si sono organizzati e formati, hanno iniziato a salire verso l’alto per ambizione personale, sono diventati i protagonisti indiscussi dell’alpinismo sulle montagne di casa, le Alpi.

Nel corso dell’ultimo ventennio abbiamo osservato questo stesso fenomeno anche in Himalaya, dove i local sono diventati prima guide preparate e competenti, poi interpreti di salite da primato. I dieci alpinisti giunti in vetta hanno un curriculum che vanta almeno quattro Ottomila, molti li hanno scalati più e più volte. Tra di loro spiccano i profili di Nirmal Purja, recordman con all’attivo le 14 vette più alte della terra in soli 6 mesi e 6 giorni (con ossigeno), e di Mingma David Sherpa, classe il 1989 è il più giovane scalatore a vantare la salita di tutti e 14 gli Ottomila (con ossigeno). Molte delle loro salite, fino a oggi, sono state realizzate con l’uso delle bombole di ossigeno. Non si tratta infatti di scalate compiute per il puro piacere di raggiungere la cima di una montagna, ma di lavoro. I ragazzi che hanno raggiunto per ben 9 volte l’Everest l’hanno fatto come guide di spedizioni commerciali, dovevano quindi essere sempre in grado di garantire la sicurezza dei loro clienti, senza usare le bombole sarebbe stato impensabile. Tornando a noi bisogna ammette con franchezza che gli alpinisti nepalesi oggi ad altissima quota non hanno rivali, seppur permanga un velo di differenza quando si parla di difficoltà tecniche elevate.

La prima salita invernale del K2 apre quindi le porte a molte riflessioni riguardo il futuro dell’himalaysmo, ora che il popolo Sherpa ha preso coscienza di questo mondo. Sicuramente, commentano alcuni esperti, porterà a dei grossi cambiamenti all’interno della società Sherpa avvicinando all’alpinismo anche chi fino a oggi ha sempre vissuto l’attività marginalmente. Sapranno certamente fare tesoro di questi risultati, riuscendo anche a monetizzare divenendo loro stessi i coordinatori di spedizioni alpinistiche e trekking in altissima quota. Cosa, quest’ultima, che sta già avvenendo.

Ossigeno si, ossigeno no

Dieci alpinisti in vetta, nove con le bombole d’ossigeno e Nirmal Purja senza come da accordi. Prima di iniziare l’attacco di vetta gli scalatori nepalesi si sono accordati decidendo che almeno uno di loro sarebbe salito senza utilizzare le bombole. Inizialmente, oltre a Purja, anche Mingma Gyalje Sherpa avrebbe dovuto effettuare l’ascensione senza, poi il freddo e alcuni problemi fisici l’hanno spinto al suo utilizzo a partire dal terzo campo.

L’ossigeno crea sempre indignazione nell’ambiente alpinistico, ma la realtà di questa salita è un’altra: mentre salivano gli alpinisti stavano attrezzando la via nella parte alta della montagna. Parliamo di un tratto particolarmente tecnico e delicato che li ha costretti a numerose pause per mettere in posizione gli ancoraggi e per stendere le corde. Siamo in inverno, a quote proibitive, con temperature sotto lo zero di parecchie decine di gradi. Il rischio di congelamento è altissimo per uno scalatore che rimane fermo a lavorare senza poter respirare una quantità sufficiente di ossigeno. Quello che hanno realizzato rimane una grande prestazione sia in salita sia in discesa, quando hanno dovuto percorrere il dislivello negativo che separa la cima da campo 3 (7350 m) al buio, ma non solo. Ancora più sorprendente quanto compiuto da Sona Sherpa e Gelje Sherpa che hanno scelto di non fermarsi sulla montagna continuando verso il campo base in un’unica tirata.

Himalaysmo invernale, una storia finita?

Si chiude con il K2 l’ultima grande sfida dell’inverno, ma si aprono le porte a nuove importanti possibilità durante la stagione più fredda. Se fino a oggi gli alpinisti si sono concentrati sulla realizzazione delle prime salite assolute, ora potranno dedicarsi alle ripetizioni, alla ricerca di nuovi itinerari sempre più difficili, a un miglioramento stilistico. A tal proposito è interessante evidenziare come in inverno nessun Ottomila, a eccezione del Nanga Parbat con la salita di Elisabeth Revol e Tomasz Mackiewicz nella stagione 2017/2018, sia mai stato salito in puro stile alpino.

Anche qui la storia ricalca quanto accaduto sulle Alpi, che dopo la salita delle cime principali della catena ha visto gli alpinisti ricercare nuovi itinerari sempre più difficili. L’inglese Albert Frederick Mummery è stato pioniere di questa evoluzione con le sue vie sul Cervino. Ma non solo, come accaduto sulle nostre montagne anche in Himalaya dopo la conquista dei picchi principali si volgerà lo sguardo all’enorme bacino di montagne tra i sei e i settemila metri ancora inviolate nella stagione fredda. Un nuovo gioco e una nuova storia da raccontare.

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