Il Natale nero dell’Annapurna, addio ad Anatolij Bukreev

Era il 25 dicembre 1997 quando una valanga ha travolto la spedizione di Anatolij Bukreev, Dimitri Sobolev e Simone Moro. I tre stavano tentando l’apertura di una nuova via. Solo Moro si sarebbe salvato.

Aprire una nuova via sull’Annapurna, in inverno. Un progetto che avrebbe potuto cambiare la storia, scrivere una pagina di alpinismo indelebile. A provarci, nel dicembre del 1997 sono Anatolij Bukreev, Dimitri Sobolev e Simone Moro. Insieme stanno provando ad aprire una nuova via lungo il versante est del decimo Ottomila.

La spedizione era motivata e i tre sembravano intenzionati a portare a casa il risultato, o quantomeno un risultato degno di nota. Il 25 dicembre, ancora a inizio spedizione, si trovavano poco oltre la crepacciata terminale e stavano fissando i primi metri di corde fisse, battendo traccia nella neve fresca. Una fatica indescrivibile, soprattutto con l’inclinazione della parete che “si faceva più ripida e severa e la mia tensione cresceva” racconta Simone Moro, in “Cometa sull’Annapurna”, il libro che ha voluto dedicare alla memoria di Anatolij Bukreev. “Affondare nella neve su un terreno quasi verticale dava una sensazione di insicurezza ed elevava di molto le difficoltà tecniche”.

Un rombo assordante

Davanti sta Simone, batte traccia e fissa le corde. Una bobina dopo l’altra, alla fine arrivano a circa 6300 metri di quota, dopo aver fissato circa 800 metri di corde, ritrovandosi sotto a una grande cornice di neve e ghiaccio. Un blocco enorme, che pareva incollato alla parete per miracolo, pronto a crollare al primo movimento sbagliato. “A sbalzo sulle nostre teste c’era la morte – ricorda Simone – che per uno strano equilibrio di forze non ci era ancora piovuta  addosso”.

I tre ignorano la cosa e continuano a lavorare per attrezzare la loro linea di salita. Sanno bene che in montagna i rischi si possono limitare il più possibile, ma non si possono azzerare. Mentre Simone filma, i compagni risalgono con le jumar lungo le corde. Ed è proprio in questo momento che accade l’inaspettato. Con un suono assordante e una forza distruttiva, la cornice di ghiaccio cede e inizia a precipitare, generando una valanga di dimensioni difficilmente immaginabili.

“’Anatoliiijjjj…’ riuscii a emettere solo quell’urlo disperato prima che l’esplosione di ghiaccio e rocce cominciasse a precipitarmi addosso.” Il racconto di Simone è lucido e preciso. Le immagini di quei secondi di terrore sono stampate nella sua mente. “Non so come, ma nonostante le centinaia di metri che ci separavano io ricordo il suo sguardo proprio come se l’avessi avuto di fronte. È difficile esprimere ciò che quegli occhi azzurri mi dissero. Se dovessi interpretare quello sguardo, quell’ultimo sguardo di Tolij penso abbia rappresentato un misto di paura e di ferma volontà di farcela. Poi solo rumore, che riempie l’aria, che riempie la mente. Un nube bianca, il disorientamento, e ancora il buio. Dopo, silenzio. La forza devastante si è dispersa, a terra rimangono i resti della valanga. Una massa irregolare di neve da cui emerge la sagoma di Simone Moro. È dolorante, ma vivo. Ha le mani completamente aperte e ricoperte di sangue. La testa confusa dalle botte prese dalla valanga. Sopra di lui può vedere il punto dov’era, a decine e decine di metri di dislivello. Dei suoi compagni, nessuna traccia.

Prova a cercarli, scava ignorando i dolori alle mani. Poi rinuncia, deve pensare a lui se non vuole fare la stesse fine.

La fine di una leggenda

Erano le 12.30 del giorno di Natale. Non un giorno qualsiasi, ma una data in cui il mondo celebra la vita, la pace e la fratellanza. E mentre il mondo si riuniva sotto a una stella che brillando guardava già al nuovo millennio, in quel 1997 l’alpinismo sorrideva amaramente di fronte alla scomparsa di un talento che di certo non ha mai avuto la fama che avrebbe meritato. Figlio dell’Ex Unione Sovietica Anatolij Bukreev viaggiava con un motore diverso. Il suo primo approccio all’altissima quota l’aveva avuto sul Kangchenjunga, la terza montagna della Terra. Un battesimo che ha fatto subito comprendere di che pasta fosse fatto. Prima aveva aperto una via insieme a una spedizione sovietica, dopo si era cimentato riuscendo nella prima traversata delle quattro cime del massiccio. Seguono, in rapida successione, una nuova via lungo la parete est del Dhauagiri, che realizza in velocità; poi il K2 e ancora due volte sul Manaslu. Sempre il velocità raggiunge la cima del Lhotse. Tocca poi a Cho Oyu, Shisha Pangma, Broad Peak e Gasherbrum II. Nato per la montagna, ascoltando solo il suo battito. La montagna l’ha voluto con sé.

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