Everest: 20 anni fa Gianluca Genoni si immergeva a 5200 metri di quota

Apneista di fama mondiale, nel 2003 Gianluca Genoni partecipa a un esperimento scientifico che lo porta a immergersi nelle acque del Lago Superiore, ai piedi dell’Everest, a 5200 metri di quota.

Gianluca Genoni è un apneista di fama mondiale. Sono 18 i record nel suo palmares, 18 come i minuti che è stato senza respirare, nel 2008, a Goito (per la precisione, 18 minuti, 3 secondi e 63 decimi). In questi giorni ricorrono 20 anni da un altro primato: l’immersione più alta del mondo, avvenuta nel Lago Superiore del Laboratorio-Osservatorio Piramide EvK2Cnr sul lato nepalese dell’Everest, a 5200 metri, nel 2003. Un esperimento scientifico, in realtà, che il prof. Lucio Ricciardi della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università dell’Insubria di Varese ha effettuato per testare la reazione fisica in situazione di grave carenza di ossigeno (ipossia). Genoni è riuscito a restare in acqua un’ora e 40, a circa 5 gradi. L’esperienza si è svolta durante un viaggio partito da Malpensa il 18 settembre e conclusa il 10 ottobre, che ha previsto atterraggio a Kathmandu, volo interno fino a Lukla e trekking alla Piramide, con una puntatina al Campo Base dell’Everest.

“È già passato così tanto tempo? Mi sento vecchio” scherza lui, nato a Galliate nel 1968 e cresciuto a Busto Arsizio, dove è nato anche Umberto Pelizzari, altro compagno di record mondiali di apnea. Fisico asciutto, 1,92 di altezza, Genoni sembra l’atleta della porta accanto quando saluta i vecchi amici che proprio a Busto Arsizio sono accorsi ad ascoltarlo per una serata che ha per tema lo sport come educazione, insieme allo slalomista Giorgio Rocca e al ciclista Dario Andriotto. L’indomani deve partire per il Festival dello Sport, per parlare di apnea con un’altra grande come Alessia Zecchini, ma non si risparmia. “È la terza volta che ci vado, è una bella esperienza poter incontrare così tanti sportivi diversi in un posto solo”, racconterà a posteriori.

 

Gianluca, come ti sei preparato per immergerti a 5200 metri?

L’anno prima, nel 2002, ho fatto una prova al Lago Superiore delle Cime Bianche, a 3000 metri, per testare le reazioni al freddo (in quell’occasione è sceso fino a 60 metri, NdR). C’erano 14 gradi sottozero, ma in quei casi si usa una muta spessa 7 millimetri, soffrono di più le mani e i piedi, perché guanti e calzari non sono altrettanto protettivi, ma soprattutto la faccia, si ha proprio una sensazione dolorosa. In più tirava vento e quindi si stava meglio in acqua a due gradi che fuori. Poi avevo fatto un po’ di acclimatamento a Cervinia con trekking in quota.

 

Eri mai stato così in alto?

No, anche se ci tenevo di mio a fare un’esperienza all’Everest e infatti sono stato contento quando mi si è presentata la possibilità. Andare in montagna mi piace: d’inverno faccio fondo e scialpinismo, nel 2001 sono salito sul Cervino, nel 2008 sul Monte Bianco e nel 2013 al Cristo delle Vette, sul Rosa. Ma sull’Himalaya mi sentivo più sereno, sarà che si vedono alberi di mele a 3800 metri, quando invece qua inizi a sentire la fatica. Fino a 4000 metri ho retto bene, verso i 5000 invece la quota ha iniziato a pesare, facevo fatica a dormire, non avevo fame. Quando poi sono andato al Campo Base avvicinandomi ai 6000 metri è cambiato tutto: anche pochi metri richiedono un grande sforzo.

 

Com’è fare da cavia?

Mi hanno spesso studiato quando facevo i record con i tuffi profondi (160 metri il record mondiale 2012 di apnea in assetto variabile, NdR), torna utile anche a me, per capire cosa succede al mio corpo. All’Everest ho capito quanto si può tollerare l’ipossia e cosa significa andare subito in affanno, riuscendo a simulare facilmente situazioni e reazioni che livello del mare sono difficili da raggiungere.

 

Come sono andate le tue prestazioni, respirando un’aria così povera di ossigeno?

Ho fatto fatica ad arrivare a 18 metri, che è la profondità totale del lago, anche se oggi mi hanno detto essere diminuita, ci sono riuscito al secondo tentativo. La saturazione è scesa fino al 29% contro il 97-98%, da cadavere per intenderci, sotto il 90% si dà l’ossigeno: sono parametri impensabili al livello del mare, eppure stavo bene. Anche i miei tempi di apnea sono calati drasticamente: nel lago poco sopra i 2 minuti e 3 ai test dentro la Piramide, contro gli 8 a quote standard. Quindi il freddo e soprattutto la carenza di ossigeno incidono parecchio.

 

Nel 2014 hai replicato un’immersione gelata in Islanda, alla Faglia di Sifra, nel parco nazionale di Thingvellir, dove la placca continentale eurasiatica e quella americana sono ancora unite.

L’Islanda è un posto fantastico e quella è data come una delle immersioni più belle del mondo, con fondali meravigliosi e grotte nascoste, anche se è per esperti, perché bisogna saper gestire l’attrezzatura specialistica per le basse temperature e bisogna restare lucidi, quando il freddo ti blocca il respiro.

 

Che ricordi ti restano dell’esperienza alla Piramide?

Il lago era incredibilmente limpido, anche se sotto non c’era pesce, ovviamente. Per il resto mi ha affascinato soprattutto vedere come vivono le persone in posti per noi impensabili, come ho sperimentato anche immergendomi con le pescatrici di perle in Corea.

 

Fai corsi e prepari istruttori, qual è il vero segreto dell’apneista?

Come per ogni sport c’è una tecnica, che si impara, e c’è una predisposizione personale, che si allena. È fondamentale imparare a respirare, saper gestire le emozioni, la rabbia, l’ansia, capire qual è il proprio limite, ascoltare il proprio corpo. Immergersi per il piacere di farlo, non come sfida. Affronto anche la vita così, prendendo sempre un bel respiro.

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