“A passo d’uomo”, una storia di redenzione

L’attore, premio Oscar, Jean Dujardin è il protagonista di “A passo d’uomo”, il film tratto dal libro autobiografico “Sentieri neri” di Sylvain Tesson.

Uno scrittore famoso, un incidente quasi mortale, un viaggio di 1300 chilometri a piedi. Sono i tre ingredienti base del film “A passo d’uomo”, di Denis Imbert, interpretato da Jean Dujardin, premio Oscar come Migliore Attore per “The artist” (2012), nelle sale italiane di tutta Italia grazie a Wanted che lo distribuisce in collaborazione con il CAI, dal momento che il film ha aperto l’ultimo Trento Film Festival.

La storia

Il film è tratto dal libro autobiografico “Sentieri neri” di Sylvain Tesson (Sellerio 2018), come già “La pantera delle nevi” uscito al cinema nel 2022 (il libro invece era del 2020). Mentre pochi giorni fa è uscito anche “Bianco”, sempre con Sellerio, che descrive un viaggio con gli sci attraverso le Alpi da Mentone a Trieste, in compagnia dell’amico e guida alpina Daniel du Lac. Protagonista di “A passo d’uomo” è Pierre, alter ego di Sylvain, scrittore di fama, talmente lanciato nella sua vita da vip da perdere se stesso, soprattutto dietro alle donne e all’alcol. Proprio durante una delle sue serate ad alto tasso alcolico Pierre cade dal balcone di un hotel e solo per miracolo non muore. Cade in maniera banale, succede tutto in una frazione di secondi. Finisce in ospedale per parecchi mesi con molte fratture che potrebbero addirittura portarlo alla paralisi. Non gli manca il tempo per riflettere allora su di sé, sull’uomo che è diventato, sul suo futuro e si ripromette di ripartire. In senso letterale: “Se ce la farò, voglio attraversare la Francia a piedi”, afferma. E così, dopo le foreste della Siberia, dopo l’altopiano mongolo, Pierre-Tesson attraversa tutta la Francia da sud-est a nord-ovest, dai Calanchi alla Normandia. 1300 chilometri che sarebbero impegnativi per una persona in forma, ma per lui, ancora con le stampelle, il volto segnato dalle cicatrici e sotto antidolorifici, diventa una vera impresa. Compiuta da solo, ma in compagnia di un po’ di libri (tanti filosofi, anche italiani come Agamben) e di tutti coloro che incontrerà durante il viaggio.

Il significato

Percorrere da solo 1300 chilometri nelle zone interne della Francia rurale sembra una sfida. Ma per il protagonista è piuttosto una redenzione: lo scopo non è quello superomistico di sentirsi di nuovo capace di compiere una grande impresa, ignorando quello che è successo e perché. Molto delicato il modo in cui Imbert decide di raccontare l’accaduto, senza spiattellarlo tutto subito, ma facendolo filtrare lungo la narrazione integrale, dando così la misura del dolore che ha provocato nel corpo e nell’anima di chi lo ha subito, che di parlarne non ha molta voglia, perché se ne vergogna profondamente. L’incidente, infatti, si porrà come un nuovo inizio, dagli esiti molto incerti, come solo un vero viaggio può incarnare. Tesson è lo scrittore-viaggiatore per eccellenza, secondo Denis Imbert, perché i suoi viaggi sono reali, ma allo stesso tempo metaforici (auto-fiction, la definisce il regista) e portano dritto dentro alle profondità di ciascuno, libero di interpretare le sue storie in base alla propria esperienza, ai propri errori, ai propri obiettivi.

La prospettiva post-pandemica

Questo è il racconto di un cambio di prospettiva: e non potrebbe essere diversamente, dal momento che il regista Denis Imbert si è imbattuto in “Sentieri neri” in piena pandemia, quando fortissima è emersa la necessità di riconnettersi alla natura, soprattutto per gli abitanti delle metropoli e dei centri urbani dominati da una vita caotica. Qualcuno ha potuto passare il lockdown in località di montagna o di mare, sperimentando ritmi di vita e spazi abitativi a misura d’uomo, in maggiore armonia con i ritmi dettati dal sorgere e dal tramontare del sole. Ecco come la storia di un uomo che va alla ricerca di sé nel silenzio della natura, nel rapporto con sconosciuti con cui riesce a stabilire un rapporto intimo come nemmeno con gli amici di lunga data, nella fatica del camminare come processo di auto-salvazione, immerso nella civiltà alternativa di chi sceglie di vivere senza il wi-fi, ecco come quella storia diventa potentemente evocativa, oggi, capace di parlare ad animi finalmente consapevoli che un equilibrio va recuperato, per non perdere noi stessi.

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