60 anni fa la scomparsa di Mary Varale, scalatrice anticonformista

Sono passati 60 anni dalla scomparsa di Mary Varale, scalatrice anticonformista, pioniera dell’alpinismo femminile.

Se fosse stata un uomo, il nome di Mary Varale non sarebbe ancora oggi meno grande e meno conosciuto di quello di Emilio Comici e Riccardo Cassin: dal primo imparò, al secondo insegnò. Ma visse in un’epoca in cui le donne in montagna erano viste più come amabili compagnie, magari anche bravine, certo non in grado di compiere imprese memorabili. È proprio grazie a donne come la Varale che quelle granitiche certezze si sfaldarono a poco a poco, non senza enormi resistenze.

Un diavolo per Mary

Maria Gennaro nacque a Marsiglia nel 1895: forse la vicinanza ai Calanques, nota zona di arrampicata del sud della Francia, la avvicinò a questa disciplina che di certo praticò quando si trasferì col padre a Milano, prediligendo come molti la vicina Grigna, palestra dei lecchesi. Frequentò la montagna fin da giovane, nel gruppo dell’Ortles e del Disgrazia, ma la svolta arrivò nel 1924 conoscendo a Canazei la guida Tita Piaz, il “diavolo delle Dolomiti”. Con il senno di poi, la svolta va vista al contrario: Tita Piaz non poteva sapere che aveva di fronte una delle più grandi scalatrici italiane di sempre. E infatti rimase sbalordito nel vederla salire con tranquillità la Torre Winkler, una delle tre Torri del Vajolet, non credendo affatto che fosse la sua prima salita su roccia. Sapeva tenere i suoi scoramenti per sé, Mary, perché sapeva che a lei, una donna, non sarebbero stati perdonati. Così fece l’anno dopo, nel 1925, quando Tita le impose di buttarsi giù da un pennone di roccia, passandole una corda sotto la gamba. Scrisse in seguito un passaggio memorabile: «Non volevo far vedere di impaurirmi davanti a quel celebre arrampicatore col quale dovevo scalare ancora tante vette e che considero come il mio maestro, non battei ciglio, e con la massima freddezza, fattami sull’orlo della torre con le spalle rivolte al vuoto mi lasciai andare. Sono momenti di emozione che non dimenticherò più».

11 anni

Quell’emozione fu seducente e introdusse man mano “la signora di Milano” nell’impervio mondo del sesto grado, di quasi esclusivo appannaggio maschile. E infatti fra le moltissime scalate realizzate si annovera un alto numero di prime femminili. Le realizzò con Tita Piaz e con le più famose guide dell’epoca (Dimai, Pederiva, Comici, Agostini) che si ritrovavano ad accompagnarla, sì, ma difficilmente ad aiutarla a salire. Fra le prime ascensioni assolute quella alla Cima dei Tre, nel gruppo Civetta-Maiozza, con Renzo Videsot e Domenico Rudatis (1930); la Punta Angelina nelle Grigne dove con Riccardo Cassin aprì la “via Mary” (1931), lo Spigolo Giallo alla Cima Piccola di Lavaredo, con Emilio Comici e Renato Zanutti (1933); la direttissima alla parete Sud-Ovest del Cimon della Pala, con Alvise Andrich e Furio Bianchet (1934). Parliamo di 217 montagne in 11 anni, dal 1924 al 1935. Non poteva passare inosservata, ma nel suo caso lo scalpore divenne scandalo. Siamo in pieno Ventennio: la comunità alpinistica degli “uomini veri” non poteva permettere un tale rivolgimento dell’ordine costituito. E le gerarchie si mossero carsicamente.

La donna dello spigolo giallo

Due sono le scalate più significative, perché rappresentano un punto di arrivo la prima e la fine di tutto la seconda: quella allo Spigolo Giallo alla Piccola di Lavaredo, nel 1933, con Comici e Zanutti, e la direttissima alla Sud-Ovest del Cimon della Pala con Andrich e Bianchet nel 1934.

Il triestino Emilio Comici al tempo si era appena trasferito a Misurina, una piccola frazione di Auronzo di Cadore, per fare la guida alpina e si era già affermato come “eroe del sesto grado”, il massimo livello raggiunto allora, quando vigeva anche la retorica dell’alpinismo eroico, appunto. Legarsi in cordata a una donna, dandole fiducia al punto da farla salire anche da prima, non fu così scontato e dobbiamo darne atto a Comici che prontamente riconobbe alla sua compagna «il merito principale» di quella mirabile scalata e non «per cavalleresco omaggio»: non solo la tecnica nel passare i passaggi chiave, ma soprattutto «senza il suo continuo ausilio morale noi avremmo battuto in ritirata sfiduciati». Del resto, Mary era una fuoriclasse, anche Zanutti la definì «ardimentosa arrampicatrice».

Pochi mesi prima Mary aveva convinto Comici a condurre un corso di arrampicata in Grigna per il CAI Lecco, durante il quale egli insegnò a giovani come Cassin, Ratti, Vitali le più moderne tecniche di arrampicata. Lei stessa diffuse la conoscenza dei nuovi gradi della scala Welzenbach e con lei Cassin, prima di quel corso con Comici, aveva iniziato a mettere in pratica quelle nuove conoscenze che nelle salite in Dolomiti avrebbero subito dato ottimi risultati.

Sempre nel ’33, Mary sposò Vittorio Varale, conosciuto pochi anni prima, giornalista e corrispondente sportivo per “La Stampa”, per cui scriveva di ciclismo e di alpinismo, sua nuova passione. Anche Varale infatti amava arrampicare, ma faticava a stare dietro alla moglie, per cui i due finirono col fare insieme perlopiù grandi passeggiate per boschi e prati. Da quel godimento meno tecnico delle montagne non si sentiva sminuito nessuno dei due.

L'offesa irreparabile

La direttissima alla Sud-Ovest del Cimon della Pala con Andrich e Bianchet fu il fiore all’occhiello della stagione 1934, ma anche l’ultimo sesto grado di Mary Varale. Andrich, nato nel 1916, era appena diciottenne e, nonostante avesse fatto pochissimo, era considerato uno dei più talentuosi scalatori bellunesi: in quel poco infatti c’era la Nord-Ovest alla Civetta, considerata della massima difficoltà e meritevole dunque di una medaglia d’oro al valore atletico. All’epoca era il CONI a darle e il CAI a suggerirle (CAI che in epoca fascista era stato rinominato Centro Alpinistico Italiano): ed ecco che le gerarchie intervennero negando il meritato riconoscimento, attribuito a Chabod. Mary Varale non potè fare a meno di notare la coincidenza: una salita con lei e una medaglia negata… Perché prima di quella salita il nome di Alvise c’era nell’elenco dei candidati. Il sospetto si fece certezza. Disprezzava i «giochi dei bussolotti» e lo scrisse chiaro e tondo al presidente del CAI di Belluno, Francesco Terribile, rassegnando irrevocabili dimissioni: «In questa compagnia di ipocriti e di buffoni io non posso più stare, mi dispiace forse di perdere compagnia dei cari compagni di Belluno, ma non farò più niente in montagna che possa rendere onore al Club Alpino dal quale mi allontano disgustata». Non potè tacere di fronte a quell’ingiustizia troppo grande, offesa anche dal vedersi rifiutato un articolo dal CAI di Angelo Manaresi, Presidente Generale dal 1930. La lettera, oggi conservata al Fondo Varale di Belluno, è datata 20 luglio 1935. Di lei da allora si sa davvero poco. Nulla di quello che fece ancora in montagna.

Una donna libera

Maria Luisa Volpe, nipote di Mary per parte di marito, spiegò bene l’evoluzione di quella zia così speciale: se negli anni ’20 era una signora della Milano bene, gonna al ginocchio, rossetto e tacchi alti, negli anni ’30 era diventata una donna emancipata che indossava pantaloni, fumava per strada e richiamava il cane con un poderoso fischio. Suo marito la soprannominò “giubbetto rosso”, perché indossava in montagna una giubba rossa e un fazzoletto legato in testa, per contenere i capelli. Chi la conobbe la descriveva come solare e affettuosa, sempre cordiale e pronta ad aiutare in montagna, ma forte e coraggiosa, tecnicamente preparatissima. Fu tra le poche donne del suo tempo a salire gradi così difficili ed era consapevole dell’importanza che le sue imprese sportive rivestivano in realtà per tutto il genere femminile. Ne scriveva per la rivista “Vita femminile”: «Credo che ciò non sia del tutto inutile, se non altro per dimostrare o ricordare a chi finge di non saperlo, che noi donne non siamo poi quegli esseri pavidi e debolucci che i signori uomini vogliono far credere». Solo la malattia riuscì a vincerla, un’artrite reumatoide che la costrinse sempre più all’immobilità, una condizione peggiore della morte, per una donna abituata a librarsi nel vuoto senza timori. Morì nella sua casa di Bordighera il 9 dicembre 1963.

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